sabato 29 settembre 2012

Questo slargo all'incrocio di via Vecchi Pardini con via del Tiro a Segno era molto importante e poi ne parlerò; ora torno indietro, verso casa, verso ovest e dopo Musolino trovo due case e più scostata dalla strada una corte. In un delle case abitava una donna dell'età di mia madre e di Dantina e la ricordo perché veniva spesso a Fibbiani: una donna non tanto alta, di nome Flavia, capelli sul rosso e anche la pelle sembrava concordare, quasi un'abbronzatura continua su volto e braccia, un volto tranquillo, sorridente e simpatico. Doveva essere amica di Dantina, ma chi non era amica di Dantina? e quando passava dalla via si fermava a parlare. Non ricordo quasi altro di lei, solo che aveva una sorella suora. Nella piccola corte (aveva un nome?) abitava la famiglia Rindi con due bei giovanotti e una figlia di nome Fiorella.
Dopo la fogna del carburo c'era la villa dei Cinquini ma la cancellata la rendeva un'isola difficile da esplorare, una serie di campi separava la villa dalla mia corte, non c'erano affatto case, solo campi e orti, come quello di Arturo e Italia. Questo pezzo di strada forse è il più irriconoscibile e cominciò a cambiare quando eravamo ancora bambine.

venerdì 28 settembre 2012

Continuando verso il Cantone, dopo la villetta costruita abbastanza presto, c'era una casa con cortile chiuso abitata da una donna con un bel viso aperto e capelli bianchi ma non vecchia, mia madre la salutava ma ora non ne ricordo, accidenti, il nome; da lì attraverso uno stretto stradello si entrava in una corte ma io non ci passavo mai, proseguivo sulla strada che si restringeva avendo da un lato la casa della bella Marisa e dall'altro Musolino che è stato bar, osteria, e altro ancora e poi casa di abitazione. Una serie di case attaccate portava al Cantone, bivio tra via Vecchi Pardini e via del Tiro a segno e caratterizzato da una statua di Sant'Antonio chiusa in una piccola edicola che veniva illuminata e decorata con fiori ogni 13 di giugno. Lì la strada faceva uno slargo e la sera di quel giorno (che era anche il compleanno di mia madre) si andava, in discreto numero, sul Cantone e si dicevano preghiere rivolte al santo perché facesse grazie a chi ne aveva bisogno.

giovedì 27 settembre 2012

Ma ora devo fermarmi davanti a casa di Doriano perché un ricordo lontanissimo mi mette davanti agli occhi una scena magica e paurosa: per mano a mia madre tornavo, forse, da fare qualche spesa, era quasi sera, a ovest c'era ancora un pò di luce. Alcuni ragazzi erano ritti su una fogna murata. Questa costruzione sparì prestissimo, ne ho solo quell'unico ricordo. Dicevo quei ragazzi ritti e vocianti stagliati sul tramonto, quasi figurine nere, in mano dei bastoni?, forse qualche barattolo pieno d'acqua?; la superficie della fogna era gialla di una polvere che, poi mi dissero, si chiamava carburo e io vedevo dei lampi di luce e sentivo dei forti schiocchi: una paura! Ma fu questa la prima e ultima visione, era passato il tempo di quei giochi e anche di quella polvere. Ieri sera, leggendo un libro di un autore svedese ho trovato questo: "Ricordo le lanterne a carburo. L'orrendo sfrigolio un pò minaccioso quando il carburo sul fondo della lanterna si mescolava con l'acqua, e la luce bianca e spietata che potevano emettere." Io non ho mai visto lanterne a carburo, nelle case tutti avevamo la luce elettrica ma abbiamo avuto entrambi una sensazione di paura e minaccia,  Lars Gustafsson in Svezia, io a Lucca.

mercoledì 26 settembre 2012

Verso Musolino
Sulla via Vecchi Pardini, dalla corte a Musolino si andava verso est e s'incontravano paesaggi e persone in quel breve tratto di strada. La via era, naturalmente, sterrata e costeggiava, a destra, l'orto di Dantina e Fedora, la felice casa dei Giangrandi con la rosa mai scordata che copriva un cancello, ancora campi e poi la casa della mia maestra, alta, circondata da una cancellata ricoperta, a primavera, di roselline a mazzetto di colore rosa, profumate, che raccoglievamo per fare le fiorite per le processioni. Accanto alla casa della maestra ma separata da un campo con un noce alto e un grande cancello aperto che forse ho superato una sola volta abitava una famiglia di parenti di Dora la Tintina tra cui due giovanotti (ricordo solo il nome di uno di loro: Doriano). Sempre da quel lato della via fu costruita, molto presto una villetta e non mi viene in mente cosa c'era prima...

lunedì 24 settembre 2012

Adesso non ci sono più, non campi di grano, papaveri e fiordalisi, non fognaccia, non maggiolini che volano attaccati ai fili delle canne da pesca, non bambini che regalano fragole e nemmeno bambini e bambine scalzi che giocano sull'erba o sulle fosse e non c'è più neanche il luogo che ho messo come destinazione di quel percorso, non c'è più Pannero, distrutta, eliminata, rasa al suolo ma io ricordo: il pollaio con la rete sormontata dai Fiori della Passione, lo stradello tra le viti che percorrevo per andarci, la casa di Fedora,  la cucina piccola con le scale che recavano alle camere, il grande salone col pavimento di mattoni rossi dove abbiamo ballato con i ragazzini per la prima volta, il sole che illuminava le due capanne a nord, e le persone che lì abitarono per tanti anni.

sabato 22 settembre 2012

Il campo che si riempiva di grano, papaveri e fiordalisi fu poi deposito di paloni dell'Enel ma in fondo, verso sud rimase uno spazio con residui delle vecchie linee, ferraccio, altri oggetti che non so nominare. Lì andavano soprattutto i maschi ma era troppo interessante per lasciarlo soltanto a loro, così qualcuna di noi si avventurava, cosciente di essere minoranza, spinta specialmente da un grosso manufatto di ferro che si stava arrugginendo che aveva una struttura perfetta per fare le giravolte, sotto c'era erba che attutiva le eventuali cadute (che c'erano, e di schiena). Un giorno di sole, mi sembra tre di noi, ci incamminammo verso la struttura che era, però, già in uso ai maschi, tra i quali ricordo Piero Tapa. Si misero certo d'accordo e, troppo facilmente, ci cedettero il posto, poi quatti quatti se ne andarono a rifornirsi di "ghiove", proiettili di terra, e cominciarono a tirarle verso di noi che rimanemmo prigioniere: si poteva scappare soltanto passando davanti a loro e non lo facemmo. Tutte terrose e urlando di smetterla si rimase lì a prenderle finché qualcuno, forse Dantina?, non li spedì lontano.

venerdì 21 settembre 2012

Prima delle case Mencacci ma sulla sinistra andando verso Pannero c'era il campo di Dantina, più lungo che largo, e un altro campo che ho visto pieno di grano (buoni i chicchi quasi pronti, un pò verdini e teneri) papaveri e fiordalisi, una sinfonia di colori depositata negli occhi, la bellezza della natura agganciata alla mente. Dantina lasciava il suo campo a fieno e quando lo falciava il profumo rimaneva nel naso e ci piaceva rotolarci sopra, ma non si poteva "aggiaccare" il fieno. I movimenti di Dantina con la falciana, così si chiamava lo strumento, erano armonici e seguivano un ritmo: le mani tenevano il lungo manico e muovevano le braccia in parallelo da destra a sinistra recidendo la base delle erbe. Quando l'erba era stata al sole tutto il giorno veniva raccolta, con la forca, in mucchi e il giorno seguente sparsa di nuovo al sole. Se c'era rischio di pioggia i mucchi venivano coperti in qualche modo e mi ricordo Edilia (sensibile ai cambiamenti del tempo) che urlava: Dantina, va a "piove'", cammina!

mercoledì 19 settembre 2012

Verso Pannero, dopo le case dei Mencacci, quasi al bordo della strada c'era la Fognaccia. Non so perchè avesse quel peggiorativo. La Fognaccia era una costruzione di mattoni, un parallelepipedo con chiusura un pò a cupola, non veniva più usata e noi spesso si andava lì, si saliva, si scendeva, si saltava giù nei prati intorno a cogliere margherite. In una fotografia siamo ritratte sedute nell'erba con vestiti leggeri ma eravamo già ragazzine. Celebre in casa mia era la frase: O Neo, o Neo, ma ci si va alla Fognaccia? che mio fratello Alfonso pronunciava spesso rivolgendosi al Magni, forse una volta anche in un sogno perché sognava spesso a voce alta. Il posto era bello e si poteva giocare lontano dagli occhi della corte. In quei prati quando c'erano anche i maschi ho fatto volare maggiolini attaccati a un filo trasparente ma avevo una certa paura per il rumore stridente che facevano quelle povere bestie.

martedì 18 settembre 2012

Verso Pannero
Questo era uno spostamento non proprio quotidiano ma andavamo in quella zona da sole, senza accompagnamento di adulti. Prima di arrivare a Pannero, per un certo periodo (mesi?) una villetta era abitata da un ragazzino di nome Marco che era, mi sembra, figlio unico, e abitava lì provvisoriamente al seguito della famiglia (non so che lavoro facessero il padre e la madre). Forse, passando dalla strada il ragazzino ci vide, dal giardino di fronte a casa, forse ci salutò e anche noi lo salutammo, fatto sta che diverse volte siamo andate in quella casa a giocare, eravamo mi sembra in tre. Marco era molto gentile e calmo, diverso dai nostri amici di corte; una volta ci portò in casa e, scesi alcuni scalini, entrammo in una grande stanza piena di giochi, con un tavolo dove lui aveva disposto il Monopoli. Mah, che gioco era quello? Nessuna di noi l'aveva mai visto e, a parte tirare i dadi, che ci sembrava simpatico, comprare e vendere case e palazzi ci sembrava insolito e noioso. Non si giocò più con quel gioco, lui si rese conto del nostro imbarazzo, ma ci divertimmo molto coi tappini delle bibite dove avevamo attaccato i migliori ciclisti del tempo: io avevo Magni, mi sembra di nome Fiorenzo. La pista era il perimetro della casa, liscio e ideale per far scorrere i tappini. Un ricordo molto tenero che ho di Marco è il dono che mi fece di una delle prime fragole del suo giardino: mi fece sentire una regina, perché mi aveva scelta. Molto presto non lo vedemmo più, si era di nuovo trasferito.

lunedì 17 settembre 2012

Piccoli spostamenti quasi quotidiani dalla corte
Il nostro spazio quotidiano era la corte, erano le case, le capanne, il pratino, il murìcciolo, la fogna su via Boboli ma ci spostavamo spesso da questi confini, poco più in là, certamente, a tiro di voce delle mamme ma comunque ci sembrava di andare lontano evitando gli occhi della gente, senza adulti intorno (non che ne fossimo coscienti). Un posto era la fossa, acqua pulita, con erbe e piante verdissime che nascondevano girini e bignatte: in genere la raggiungevo da uno stradello dietro la casa di Elvira ma si poteva andare anche dall'orto di Edilia che però aveva un cancellino. Ci mettevamo a sedere sui bordi o sulla tavola di legno di Adolfo con i piedi che sfioravano l'acqua e restavamo a guardare il suo scorrere, i giochi che faceva con le erbe lunghe e serpentine, il rumore leggero, la sua trasparenza. Attraversata la fossa (che qualche volta si saltava con un bel bacco prendendo una lunga rincorsa) si percorrevano campi interrotti da piccoli fossi e delineati da rari salici (che sapore le foglie masticate) e giocavamo coi fiori: margherite per collane e braccialetti, pappi di piscialletto da soffiare. Qualche volta da sole si arrivava al Fossetto ma soltanto per bere e tornare veloci verso la corte.

giovedì 13 settembre 2012

Leonetto
Eh, sì, Leonetto era un gran lavoratore, era l'unico dei Mencacci a continuare la tradizione dei contadini, tutti gli altri avevano lavori diciamo sedentari, senza collegamento con la terra, lui no, bisognava vederlo quando  raccoglieva il fieno, quando arava i campi, quando concimava per avere verdure forti e gustose, insomma Leonetto era tutt'uno con i suoi attrezzi e col suo trattore, sempre scuro di sole e solido come una roccia, sempre nei suoi campi dietro casa, a nord, verso il fiume. Non ricordo di averci scambiato molte parole perché non c'era mai nella corte, vedevo invece spesso la moglie Zelinda che passava in bicicletta per andare a far la spesa e si fermava a salutare. Leonetto e Zelinda avevano due bei figli, Francesco, della mia età, e Michele (Michelino) più vivace ma ancora troppo piccolo per giocare con noi. Sui mucchi del suo fieno mi sono tirata tante volte, il suo profumo veniva assorbito dalla pelle, dai vestiti dove ne rimanevano fili lunghi da attorcigliare alle dita come anelli. Non c'è quasi niente di più buono dell'odore del fieno.

martedì 11 settembre 2012

Il Gigliucci
Anche lui, come il Torselli, veniva chiamato per cognome. Il suo nome era Giulio ma raramente veniva chiamato così. Non molto alto, magro, sempre ben vestito, lavorava a Lucca, mi sembra come meccanico dentista. Si spostava spesso in bicicletta anche quando era già in su d'età e una volta che lo vidi in Piazza S.Michele proprio in bici mi disse che finché avesse potuto si sarebbe spostato così perché a piedi per lui era difficoltoso. Da molti anni non lo vedevo ma fu come lo avessi visto il giorno prima, le parole scorrevano con semplicità.  Era sposato con Lida e aveva due figlie: Rosanna e Virginia e viveva in una casa grande, con stanze ampie (misuravo la grandezza sulla mia casa che effettivamente era molto più piccola). Per qualche tempo viveva lì anche Truccio e a periodi veniva Jolanda. Il Gigliucci aveva le idee di mio padre e del mio zio Oreste e con loro spesso si fermava a parlare.

domenica 9 settembre 2012

Dora (la Tintina)
Dora era piccolina, era soprannominata La Tintina, chissa da dove veniva questo nomignolo. Dora la ricordo sempre a piedi, camminava veloce con piccoli passi, spesso era in ciabatte, come allora usava nella corte. Andava a far la spesa sul Cantone o a trovare i fratelli e le sorelle che abitavano sulla via. Dalla finestra della mia cucina o della camera la vedevo passare, una figurina sorridente. Il marito si chiamava Felice ma io l'ho visto poco; aveva due belle figlie, Luana e Franchina e l'ultimo era Alessandro, sempre chiamato Sandro, della mia età e, diciamo così, piuttosto vivace ma per i maschietti di quell'età, netta minoranza nella corte, c'era il problema di emergere e di farsi valere.

sabato 8 settembre 2012

La Meri e la Geni
Chissà perché,  ma la Meri la ricordo sulla porta di casa. Rispetto alla sorella (la Geni) era molto più sedentaria, stava in casa e badava al Torselli e a Carla, l'unica figlia che faceva la sarta. Meri era già bianca di capelli, un viso fresco, però, che portava due occhi chiari e sorridenti, non l'ho mai sentita litigare né alzare la voce. Mia madre diceva che la Meri stava come un bicchierino sciacquato, attenta a tutti i venti perché era delicata di salute e questo veniva attribuito al parto (una cosa di molti e molti anni prima se era stato quello per mettere al mondo Carla). La Geni, al contrario era sempre in movimento, lei abitava al Magro e si spostava con la bicicletta, ecco io vedo la Meri immobile sulla soglia di casa e la Geni in bicicletta: una ferma, l'altra in movimento. Di queste due donne potrebbe dire molto di più Lucia Rosa: erano le sue zie.

venerdì 7 settembre 2012

Donne e uomini andavano tutti in bicicletta: era un mezzo di trasporto universale e da molto piccoli i bambini la ricevevano in regalo, quella con le "rotine", ma in poco tempo queste venivano tolte perché i bambini non volevano essere di meno rispetto ai più grandicelli. Per qualche giorno provavano e si sbucciavano ginocchia e gomiti ma si rialzavano e riprovavano fino allla riuscita. I babbi e le mamme aiutavano un pò tenendo il sellino ma a volte facevano finta. Edilia, però, non aveva mai imparato, non so perché, ad andare in bicicletta e si sa che queste sono cose da imparare da piccoli. Col tempo maturò l'idea che avere un mezzo di trasporto come la bici poteva tornarle utile per spostamenti più lunghi, così, verso sera (perché la vedessero in pochi) si avventurava per le strade vicine, che erano, lo sapete già, prive di auto in marcia e provava a domare quel mezzo che si dimostrava ostile. Ricordo solo che lividi, sbucciature, malleoli sanguinanti la convinsero a desistere dall'impresa e nelle sere d'estate si sentivano le donne sganasciarsi dalle risate ai suoi racconti che non so narrare perché allora ero più impegnata nel gioco della cavallina e negli sculaccioni.

giovedì 6 settembre 2012

 Quanto accaduto poi al ristorante mi porta ancora oggi il sorriso sulle labbra tutta le volte che vedo un pollo arrosto. Non so che ristorante fosse ma certo uno noto a quei tempi e non so cosa avesse ordinato per primo ma per secondo c'era di sicuro il pollo e, naturalmente alla signorina Edilia fu offerto il coscio. Beh, a casa si sarebbe afferrato con le mani e gustato ma lì la cosa era differente: forchetta e coltello dovevano intervenire ma in maniera delicata a tagliarne bocconcini da mettere graziosamente in bocca. Edilia ci pensò su e afferrò gli strumenti ma al primo tocco il bel coscio arrostito prese il volo e se ne andò dal piatto al pavimento. No, no, caffè Pfanner e ristoranti famosi non erano fatti per Edilia!

mercoledì 5 settembre 2012

Edilia
Grassoccia, viso fresco sempre sorridente, non si era sposata e viveva da sola nella sua grande bella casa. Quando ascoltava raccontare lo faceva come se bevesse le parole e intercalava il suo ascolto con diversi " O té, o té" a significare il suo stupore nell'apprendere le novità delle persone e della corte. Edilia aveva paura dei temporali, specialmente dei tuoni e qualche volta se scoppiavano di notte Dantina andava a farle compagnia; con Dantina era come con una sorella. Quando la vera sorella si era sposata con un signore che l'aveva portata in una bella villa poco lontana, sullo Stradone, aveva dovuto mostrarsi un pò più "signorile", andare qualche volta a teatro, prendere un caffè da Pfanner, recarsi al ristorante.. Ma non erano proprio cose per lei che si sentiva, diciamo, un pò a disagio.
Il caffé da Pfanner l'andò a prendere con la Geni, si sedettero compunte e ordinarono i loro caffè al cameriere e quando questo ritornò con l'ordinazione cominciarono a guardarsi sgomente: sul tavolo c'erano, sì, due caffè ma anche due bicchieri d'acqua che non avevano ordinato! Non sapevano cosa fare, erano in ansia e alla fine chiamarono il cameriere: Scusi, sa, i due bicchieri d'acqua non li abbiamo ordinati.
Non mi sono note la reazione e la faccia del cameriere perché a questo punto le risate scuotevano la corte.

lunedì 3 settembre 2012

Adolfo (Naso)
Adolfo era nonno di Beppino di Leda, padre di Carlo, il falegname che fu ucciso in un incidente mentre tornava dal lavoro con la sua motocicletta. Adolfo quindi era vecchio, alto e dinoccolato, di poche parole e, direi, triste, non aveva proprio niente da ridere. Era stato ed era contadino, i contadini non andavano in pensione. Il pratino davanti casa si chiamava il pratino di Adolfo, e lì c'era anche il pozzo di Adolfo.Adolfo aveva una stalla sul retro della casa con tante gabbie di conigli e porcellini d'India e aveva i campi sopra (cioè a nord) la fossa che poteva attraversare con una tavola lunga che poi ritirava. In quei campi coltivava un bell'orto con pomodori e altre verdure tra le quali i cavolfiori. Questo lo ricordo bene perchè noi bimbe e bimbi andavamo spesso in quei campi e ci divertivamo a passare sulla tavola di corsa (a volte cascando nella fossa se qualcuno, vero Lolle?, la muoveva o la tirava. Beh, quell'anno erano cresciuti dei cavolfiori bellissimi e aprendo le foglie si potevano vedere quelle palle bianche che erano gustose, specialmente crude. Cosa facemmo si può intuire; capimmo poi il danno che avevamo fatto quando Adolfo ci inseguì per un lungo tratto e non potendoci raggiungerci perché allora si volava ci requisì le biciclette e per qualche giorno restammo in casa in castigo. Di Adolfo ricordo il carrettino strano sul quale disponeva le verdure da portare al mercato di Lucca: una disposizione precisa, per forme, colori e grandezza che mostrava l'amore per il suo lavoro e il rispetto per i frutti dell'orto.

domenica 2 settembre 2012

Boschino
Si chiamava Antonio, Tonio,  ma quasi tutti lo chiamavano Boschino e mi sembrava che lui non fosse molto contento. Era il nonno di Marisa e Paola e viveva con loro e con il Frati. Prima abitavano vicino a Edilia, nella parte di corte dove facevamo lo sculaccione estivo, dopo andarono nella casa dove avevano abitato Enzo, Irene e la figlia Bernardetta cioè in una porzione della casa di Elvira. Era già vecchio e aveva certo fatto il contadino e si raccontava di un carretto che forse si era rotto perché aveva le stanghe di fico, di legno tenero e così noi si sentiva dire dai ragazzi "Boschino, hai il "caretto" con le stanghe di "fio"!" e non c'era altra cosa che lo facesse arrabbiare tanto. Era amico/nemico di Adolfo (Naso) e si litigavano amichevolmente.
Boschino quando la sera sedevamo sullo scalino di marmo della casa a chiacchierare ci diceva che da grandi avremmo avuto i dolori. Aveva un orologio da taschino di cui era molto orgoglioso e lo guardava spesso; quando suonava l'ora del campanile della chiesa di Sant'Anna controllava che fosse giusta, cioè che fosse uguale a quella segnata dal suo orologio.